L' ambiente storico
Il centro dell’ambiente, in cui si muovevano i cittadini veneti e quindi anche i Casarotto, era rappresentato dalla Chiesa e in particolare dalla Parrocchia.
Però la società rurale, fino all’introduzione del codice napoleonico, si resse con istituzioni proprie ed antiche, le quali ne assicurarono l’autonomia nell’ambito locale. Organismo politico era il “comun” che si esprimeva nella “vicinia”, assemblea dei capi famiglia che, radunati, deliberavano a maggioranza di voti sulle questioni loro spettanti secondo gli statuti e le concessioni da parte della Repubblica Veneta. Tra le numerose attività dei Comuni, attestate dalle fonti, compare anche la protezione delle manifestazioni di culto verso la divinità, la vergine e i santi, cui spesso erano dedicate festività civili e occasioni di divertimento collettivo. La Parrocchia pertanto era considerata istituzione locale, appartenente al “comun” per quanto riguardava le attività di ordine materiale, mentre al parroco toccavano quelle di ordine spirituale, con separazione che si voleva quanto più netta possibile, mentre le interferenze, che pur accadevano, davano luogo a liti anche lunghe. Il governo della Parrocchia nel corso dei secoli non subì modifiche sostanziali, anche per il persistere della tradizione che nel mondo rurale veneto era legge tenacemente osservata dai vecchi ai quali, esclusivamente, spettava comandare.
I due elementi costitutivi della Parrocchia erano la Chiesa con le adiacenze, possesso del comune rurale, e il "beneficio", di varia provenienza e condizione necessaria per la erezione della Parrocchia. Alcune comunità godevano del diritto di giuspatronato, cioè di eleggere il parroco. Tale elezione avveniva da parte dei capi famiglia in “vicinia”, scegliendo tra sacerdoti su cui prima si assumevano accurate informazioni, e proponendo poi il nome al Vescovo. Nella Parrocchia rurale dunque vi era separazione di compiti tra Comune e Parroco, ma al primo, quale proprietario delle strutture, toccava la preminenza. Inoltre le sue iniziative si potevano estendere anche nel campo del sacro, ad esempio, organizzando processioni in particolari circostanze. Al Parroco, pur circondato di rispetto e venerazione, toccava la posizione di “funzionario” sia pure nella mansione considerata la più elevata per un uomo. Le carte, specie quelle più esplicite riferentesi al giuspatronato, gli attribuiscono sempre gli stessi compiti, di ordine spirituale, fino a farne un intermediario del sacro, tanta era la fede nelle capacità e nei poteri che l’ordinazione gli conferiva, per cui si ricorreva a lui per benedizioni che potevano rasentare la superstizione. Ma se tanta era la considerazione sui poteri del sacerdote, tuttavia nei suoi confronti non veniva meno la cautela, per non dire la diffidenza, della società rurale, riguardo i diritti e i beni del comune tanto che negli archivi parrocchiali si trovano spesso processi per contrasti o liti col Parroco o con i suoi eredi. Sono inoltre interessanti gli inventari dei beni mobili della Chiesa, minuziosamente elencati, che il nuovo Parroco doveva sottoscrivere all’entrata in possesso del beneficio e sui quali, al rilascio, avrebbe dovuto rispondere. Gli interessi concreti del Comune e le spese relative erano di genere ordinario e straordinario e tutti comunque passavano attraverso la “vicinia” per l’approvazione.
Grande vitalità avevano le Confraternite, o “Scole”, che potevano raccogliere gran parte della popolazione, per cui il loro governo avveniva in riunioni di “vicinia”, anche perché contribuivano non poco alle spese della Chiesa. Avevano la loro sede presso un altare, quello del loro santo, per il quale assumevano la manutenzione ed erano amministrate sull’esempio del Comune, a cominciare dalla nomina dei “massari”. In nessuna Parrocchia mancava la Confraternita del S.s. Sacramento, che era la più numerosa e che, unica, sfuggì alla soppressione napoleonica, per il servizio che essa prestava nella cura dell’altar maggiore e, in seguito, a quello del titolare della Chiesa. La Parrocchia rurale, gestita dal Comune con la partecipazione di altri, incontrava spese ordinarie e spese straordinarie, spesso consistenti, cui nemmeno i Comuni minori si sottraevano. La copertura di tali spese avveniva attraverso le “colte”, tassazioni regolari, approvate dalla “vicinia”, le “cerche” in natura al momento dei raccolti e le elemosine. Contributi in denaro potevano venire, per spese straordinarie, anche dai nobili, specie dai patrizi veneziani, che avevano in campagna estese proprietà. Le “cerche” erano il contributo tradizionale che andava non solo a vantaggio delle spese della Chiesa, ma anche per integrazioni al salario del “campanaro” o a beneficio di confraternite. Le elemosine erano il contributo spicciolo dell’ambiente, a cui si aggiungevano le prestazioni di lavoro e di servizi.
Da questa situazione si passò al dominio di Napoleone, i cui progetti di riforma avviarono una centralizzazione diocesana, e poi, dal 1815, all’Austria, che rese la Parrocchia un ente ecclesiastico pienamente vescovile, organicamente inquadrato nel sistema diocesano previsto dal Concilio di Trento. Venezia, sovrapponendo ai giuspatronati il “placet” per la nomina dei vescovi e altri istituti regalisti, aveva allentato il processo di episcopalizzazione delle Parrocchie. Tale situazione pubblico-giuridica nel Veneto cambiò con Napoleone, con l’istituzione della “fabbriceria” e il “Regolamento per l’esercizio patronale”. La “fabbriceria”, secondo il sistema lombardo-veneto, era un organo statale di controllo sui bilanci della Parrocchia, quindi di natura amministrativa, ma con conseguenze pastorali. Ad essa spettava “de jure” amministrare una massa patrimoniale (leggasi questue, elemosine, legati, livelli, censi, assegni e canoni vari di chiese parrocchiali e sussidiarie; ed inoltre, con contabilità separata, la cassa “Anime” e della Confraternita del Ss. Sacramento), destinata alla buona conservazione degli edifici sacri e alle spese per l’esercizio di culto. Il sistema di “fabbriceria” lombardo-veneto sopravvisse a Napoleone stesso, in quanto le leggi asburgiche si innestarono su quelle precedenti, conservando così non solo l’ispirazione di fondo, ma anche i decreti e i regolamenti. Il Regolamento del 1804 trasferì il diritto di presentazione dei candidati alla cura d’anime dai “patroni” al Vescovo, favorendo la centralizzazione statale della Parrocchia ma anche la sua episcopalizzazione.
Dopo il 1815 arrivarono nuovi cambiamenti in senso “giuseppino”. Secondo il diritto ecclesiastico austriaco la Parrocchia era anzitutto un patrimonio di rendite, amministrato dalla Stato. L’ufficio veniva dopo il beneficio. La Parrocchia era garantita e gestita dagli organi statali in nome della sovranità imperiale. Vienna garantiva una rendita reale sufficiente al ministro di culto, ne estendeva le funzioni nella scuola e nella pubblica amministrazione, ma iscriveva l’intera realtà parrocchiale nella burocrazia dello Stato. Il progetto era antitridentino, per cui i Vescovi veneti si rifiutarono, polemizzando puntigliosamente dal 1817 fino al Concordato del 1855. Con esso l’Austria pose fine al giurisdizionalismo di stile “giuseppino”. Per la Parrocchia veneta si apriva una nuova fase che ebbe come punto culminante il Concilio veneto primo nel 1859. Finalmente i Vescovi, indipendenti nell’esercizio della loro giurisdizione, potevano rendere esecutivi i decreti del Concilio di Trento. Benefici, nomine di parroci, missioni al popolo caddero sotto la normativa canonica generale della Chiesa e sinodale del Vescovo. La Parrocchia si saldò più strettamente ai canoni tridentini e ai decreti papali e, dal 1917, al “Codex juris canonici”. Cambiò anche l’immagine del Parroco, che divenne sacerdote deputato dal Vescovo, in maniera perpetua, inamovibile, sotto la sua dipendenza. Il processo di centralizzazione della cura d’anime dal 1859 evidenziò nella Parrocchia la pastoralità del Vescovo. Il processo di unificazione si estese, dopo il 1870, ai comitati cattolici dell’Opera dei congressi, alla fondazione delle casse rurali e delle cooperative, all’uso delle sale parrocchiali o delle chiese per dar voce a predicatori, a profeti politici o a fustigatori dei vizi morali.
Dopo il Concilio veneto si tenne il Sinodo veneziano del 1865 e fu pubblicato ”Enchiridion parochorum” di Giovanni Berengo del 1867, che posero le basi per la progressiva omogeneizzazione delle parrocchie in senso tridentino e papale. La Parrocchia si trasformò in porzione della Diocesi sotto la piena giurisdizione del Vescovo. In tale ambiente crebbe Giuseppe Sarto che, divenuto papa Pio X, tra le altre riforme introdusse il principio dell’amovibilità del Parroco ad arbitrio del Vescovo.
Crisi e trasformazioni sociali influirono certamente nell’espansione sociale delle Parrocchie. La loro risposta all’emarginazione, alle malattie e ai dissesti familiari traeva motivazioni ideali dalla dottrina della Chiesa e dagli indirizzi papali e si concretizzava nelle casse rurali per sconfiggere l’usura, nelle società mutue e nelle cooperative per trovare rimedi alle cattive annate, nelle scuole parrocchiali per vincere l’arretratezza culturale soprattutto dei ceti contadini. Con tale eredità la Parrocchia veneta non rimase indifferente né neutrale quando, dalle fine dell’800, entro i suoi confini, si organizzarono partiti e sindacati, si diffusero giornali ed altri organi di stampa. Si rivelò capace di battaglie anche ideologiche nelle svolte cruciali della storia politica dal 1848 in poi.
( estratto da “ Gli Archivi Parrocchiali” note di Monsignor Don Antonio Marangoni – 2006)