Genealogia Famiglie Casarotto


Lo scalatore RENATO CASAROTTO

Lo scalatore RENATO CASAROTTO

Uno dei più grandi interpreti della storia dell’alpinismo,.

Goretta e Renato Casarotto : lei è stata la prima donna italiana a scalare un 8000; lui, perito tragicamente sul K2, uno dei più grandi interpreti della storia dell’alpinismo.
Sono i protagonisti del libro che ha come filo conduttore la montagna, ma che non è il solito libro di montagna; alle vicende sportive si intrecciano quelle umane di due persone che hanno deciso di condividere ogni attimo di una vita fuori dagli schemi consueti. Le tematiche toccate sono quindi molteplici: i contatti con popolazioni di vari paesi e culture diverse, l’evoluzione dell’alpinismo, la ricerca e il superamento dei propri limiti umani.
L’autrice narra in prima persona, ma continuamente inserisce le parole e i pensieri di Renato tratti dai suoi scritti: le sue idee sull’alpinismo solitario e su quello invernale, sul suo modo tutto speciale di vivere la montagna.
Un’avventura umana in un libro coinvolgente, che a volte raggiunge toni di toccante drammaticità, come nel capitolo sul K2, dove viene rivissuta la scomparsa di Renato.
La testimonianza di una donna straordinaria che fa luce sulla figura di un grande alpinista e di un grande uomo.

Dal libro di Goretta Traverso “ GORETTA E RANATO CASAROTTO”
Una vita tra le montagne
Ed. De Agostini

articolo di Roberto Mantovani
RENATO CASAROTTO: una pietra miliare dell’alpinismo.

Il palmerès dello scalatore vicentino , di 29 anni all’epoca dell’ultima scalata, è quasi da manuale. Fino alla vigilia del servizio militare , Renato Casarotto ha frequentato pochissimo la montagna: una gita parrocchiale, un campeggio di venti giorni sulle Dolomiti, la ferrata dell’Antermoia al Catinaccio e nient’altro.
Il debutto di Renato sulla roccia avviene in divisa, con il Battaglione degli esploratori alpini in Cadore. Una ventina di scalate serie, il tirocinio nella palestra di roccia, il corso di ghiaccio e nel volgere di qualche settimana la montagna si trasforma in una passione travolgente. Fisicamente ben dotato per l’arrampicata, in breve Renato si impadronisce del “mestiere”, apprende le nozioni tecniche indispensabili, recupera il tempo perduto. E brucia letteralmente le tappe con tante salite e compagni di cordata spesso diversi, che gli permettono di confrontarsi con idee nuove e realtà differenti.
Tornato alla vita civile, Renato continua ad arrampicare e i risultati non tardano ad arrivare, come pure i gradi alti, le ripetizioni di prestigio, l’esperienza. A ogni fine settimana Renato sale verso le Piccole Dolomiti vicentine, la “palestra” dei gradi campioni dell’arrampicata libera degli anni ’30: Sandri, Menti, Carlesso, Soldà, Bertoldi. Sale ovunque, ripete gli itinerari di maggior prestigio e presto comincia ad aprire le prime vie nuove. L’attrezzatura è ancora quella tradizionale: scarponacci a suola rigida, niente baudrier, martello artigianale e chiodi recuperati chissà dove.
Con il passare dei mesi l’attività di Renato diviene imponente, esplosiva tanto da necessitare di un nuovo sbocco, di un salto qualitativo.
Nell’estate del 1971, sul Soglio Rosso, in Pasubio, Renato si cimenta per la prima volta con l’arrampicata solitaria. “ Volevo provare me stesso di fronte ai massimi livelli” scriverà. La via è la Diretta di Raffaele Carlesso sulla parete Sud. La salita non gli pone problemi, ma l’esperienza è di quelle che non si scordano. All’attacco della via, Renato decide di arrampicare con il massimo della protezione. Non vuole rischiare stupidamente: da molto tempo si è reso conto che l’alpinismo non è necessariamente un gioco d’azzardo. Così improvvisa un sistema di autoassicurazione in grado di trattenerlo in caso di caduta. Di primo acchito la tecnica funziona senza intoppi. La strada sembra quella giusta, sarà sufficiente perfezionare il metodo di autoassicurazione.
Un mese dopo, un esperimento solitario: un’altra via Carlesso, questa volta sulla Sisilla, nelle Piccole Dolomiti: 90 metri in tutto, un buon VI grado. Ma ancora una volta non c’è tempo per perdersi in considerazioni filosofiche; la stagione dolomitica non può aspettare e Renato si lancia nella ripetizione delle vie più prestigiose e difficili, dalla Philipp-Flamm al Civetta ai grandi itinerari delle Tofane e delle Pale di San Martino.
Tuttavia manca ancora qualcosa. E così, a completare pian piano il mosaico si aggiunge un nuovo tassello: quello delle scalate invernali.
La prima esperienza è nel dicembre 1972 . Con Adriana Valdo, Renato Gobbato, Renzo Timellero, Paolo e Ludovico Cappellari, Renato sale la via Solleder alla parete Est del Sass Maor, nelle Pale di San Martino.
Due mesi dopo, a fine febbraio, un’invernale solitaria nelle Piccole Dolomiti, per Renato la prima in assoluto. Niente di particolarmente difficile, beninteso, ma c’è molta neve. D’altra parte Renato vuol conoscere a fondo i suoi limiti e le sue reazioni di fronte ai rigori del clima.
Un mese più tardi, un’altra bella invernale: in due giorni Renato Casarotto sale sulla Torre Trieste con Diego Campi.
In seguito altre vie, qualche solitaria, in agosto, insieme a Giacomo Albiero, Renato porta a termine una salita lunghissima, stile grande corse: la traversata integrale del Civetta lungo la cresta spartiacque. In cifre: 5 giorni di arrampicata, 22 cime, 4000 metri di dislivello.
Marzo 1974. In tre giorni di dura arrampicata, Casarotto, Campi e Piero Radin percorrono in prima invernale lo spigolo Strobel della Rocchetta Alta di Bosconero nelle Dolomiti zoldane. Tracciata dieci anni prima dagli “Scoiattoli” di Cortina d’Ampezzo, la via si svolge in un ambiente superbo, su una delle architetture rocciose più aeree ed impressionanti delle Dolomiti. Le condizioni ambientali sono severe, l’irraggiamento solare scarso, le difficoltà estreme. “L’impresa – scriverà qualche tempo dopo Gian Piero Motti in un suo commento – segna un netto salto qualitativo nell’evoluzione di Casarotto e prefigura l’impronta che Renato darà al suo alpinismo invernale e solitario”.
Difficile dargli torto. Nel dicembre dello stesso anno, Renato ritorna in zona. Durante la salita dello spigolo Strobel, il suo sguardo si è spesso posato sul Pelmo, reso ancora più bello e attraente dalle copiose nevicate invernali. Perché dunque non tentarne la scalata in solitaria?
Un amico lo aiuta a portare il materiale da scalata fino all’attacco della via. Il 19 dicembre Renato attacca da solo la parete Nord lungo la diffi9cile via Simon-Rossi. La roccia è stracarica di neve, camini e diedri sono intasati di ghiaccio. Le difficoltà tecniche, già rilevanti in estate, appaiono proibitive. E per di più la scalata in autoassicurazione obbliga l’alpinista vicentino a percorrere tre volte ogni lunghezza di corda – due volte in salita e una in discesa – per recuperare chiodi e moschettoni. Ma Renato è inarrestabile e cinque giorni dopo sbuca sulla vetta del Pelmo. Un’impresa storica.
L’inverno, tuttavia, è solo agli inizi. Il 22 febbraio 1975, Renato attacca la via Andrich-Faè alla Punta Civetta, una grande classica dell’arrampicata libera dolomitica. L’itinerario si svolge in una lunga fessura-camino verticale che sale la vetta per 500 metri, liscia e profonda, sbarrata in più punti da tratti aggettanti e strapiombi. Fin dalle prime nevicate la via si trasforma in una ghiacciaia impressionante. Da solo, Renato riesce a passare dove altri si sono ritirati e dopo cinque bivacchi arriva sulla vetta. E’ fortissimo e , in più, possiede una carica psicologica fuori del comune. Ed è senza dubbio un fuoriclasse che riesce a vivere in equilibrio anche sulla frontiera del limite. La “ricerca dell’ignoto, il bisogno d’azione”, la curiosità, la voglia di conoscersi in profondità lo spingono verso una ricerca continua.
Senza darsi tregua, l’alpinista vicentino percorre in lungo e in largo le Dolomiti, con una preferenza spiccata per le grandi muraglie rocciose più selvagge e trascurate. Ad esempio le Pale di San Lucano, ricche di pareti grandiose che si innalzano dal fondo di gole quasi inaccessibili.
Proprio in questa zona, sulla parete Sudovest dello Spiz di Lagunaz, Renato viene attirato da un diedro regolare e perfetto alto 600 metri, tra i più grandiosi delle Alpi. Una stupenda architettura rocciosa che si innalza sopra uno zoccolo di circa 500 metri e presenta un accesso difficile e complicato. Per giungere all’attacco della via occorre infatti risalire per diverse centinaia di metri lo zoccolo della Lastia di Gardes – e già questo tratto è tutt’altro che banale - , calarsi sul fondo di una gola per altri 200 metri e da ultimo risalire i difficili risalti che consentono di guadagnare la base del diedro.
Una vera avventura.
Dall’8 all’11 giugno 1975, Renato Casarotto e Piero Radin riescono a percorrerre i 1500 metri della via che da molto tempo hanno in progetto. I passaggi si succedono gli uni agli altri senza mai un attimo di tregua. I due alpinisti non trovano un solo passo sotto il IV grado e le difficoltà estreme non si lasciano affatto desiderare. Per di più comincia a piovere e in pochi minuti il diedro assume sembianze di una cascata. Per non rimanere intrappolati, gli scalatori sono costretti a muoversi in continuazione. Ma sotto la pioggia le notti diventano eterne. E i bivacchi, oltre che umidi, sono anche scomodi. In qualche caso richiedono di rimanere appesi in parete o addirittura in piedi. Un’esperienza durissima, con momenti allucinanti. In vetta il maltempo non si placa. Impossibile
cercare un’altra via di discesa, non c’è tempo. Così gli alpinisti sono costretti a ripercorrere a ritroso l’itinerario di salita. Il che vuol dire più di 30 corde doppie sotto la pioggia, lottando con l’acqua di scolo, chiodi che scarseggiano, ancoraggi su tronchi di pino mugo e minuscole sporgenze di roccia, un lungo tratto di risalita e altri due bivacchi al limite della sopportazione.
Negli anni che seguono l’attività alpinistica di Renato cresce di livello ed intensità. Tenacia, volontà e capacità gli aprono nuovi orizzonti. Inoltre comincia ad allenarsi in modo scientifico, intensifica la preparazione atletica, lavora agli anelli, le spalliere, gli attrezzi ginnici. Anche se – è bene ricordarlo – la pratica alpinistica per lui si identifica soprattutto con l’esplorazione, con la ricerca ( anche quella interiore), con la certezza di riuscire a spingere lo sguardo oltre i confini della realtà quotidiana.
Nell’estate del1975 con Giuseppe Cogato e Giacomo Albero, Renato Casarotto apre in tre giorni una nuova via estrema di 1000 metri sulla Busazza, nel gruppo del Civetta. Un capolavoro.
Poi nel marzo dell’anno successivo sale in prima ascensione, con Bruno de Donà, il famoso diedro Sud dello Spiz di Lagunaz nelle Pale di San Lucano. Una via davvero estrema, tanto che per la prima volta, in Dolomiti, si comincia a parlare di VII grado.
E’ il biglietto da visita per l’Huascaràn e inaugura la grande stagione alpina ed extraeuropea che segnerà in modo indelebile il decennio successivo. Intanto, appena dietro l’angolo, Renato cova in segreto altri sogni: il Fitz Roy, il Broad Peak Nord, il Mount McKinley. Senza trascurare alcuni importanti progetti invernali sulle Alpi: il Trittico del Monte Bianco, il diedro Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza, la Est delle Grandes Jorasses. Desideri d’infinito che si concluderanno invece nel pendio terminale del Nevado Huascaràn Norte, nel giugno 1977. E nella morena “Chogorin” ai piedi del K2 è sepolto.

Dall’articolo di Roberto Mantovani in appendice del Libro di Goretta Traverso: “ Goretta e Renato Casarotto”

 

Lo zaino -  di Paola Agostini in Casarotto

( Poesia dedicata allo scalatore Renato Casarotto)

 

Dentro lo zaino,

l’anima tua pulsa ancor

oh ! grande scalator.

 

Forza, coraggio, appiglio,

l’essenza della montagna in te.

 

Dio ! Dentro il cuor sentivi …

Contemplazione, sogno, sentimento …

La tua voce nel vento.

 

Quel puntino rosso,

aggrappato al Gigante,

d’un tratto sparì.

 

Lui ti volle per sempre

dentro al suo cuor.

 

Qui con noi

dimora lo zaino …

prezioso tesor

d’un grande scalator.